Water and Infrastructure, Strategic Assets for Climate Resilience

From prolonged droughts to devastating floods, water has become the defining frontier of climate risk. Over the past decade, extreme weather has disrupted economies worldwide, damaging infrastructure, eroding ecosystems, and exposing the limits of global preparedness.

The scale of the challenge is already immense. Water-related disasters, including floods, caused more than 8,500 deaths, displaced over 40 million people, and resulted in approximately USD 550 billion in economic losses in 2024. These figures highlight how water-related risks are not only humanitarian crises but also systemic financial shocks that affect national budgets, supply chains, and asset valuations.

Despite the scale of these impacts, capital flows remain overwhelmingly tilted toward mitigation rather than adaptation.

In fact, in our latest GSS Bonds Market Trends Report, just 1.8% of global Green, Social, and Sustainability (GSS) Bond proceeds since 2018 have been allocated to adaptation projects. Yet, as the data show, the cost of inaction already exceeds the cost of financing the solutions.

Over the past years, climate adaptation financing from Green Bonds has been clearly driven by public entities, which accounted for more than 96% of issuance between 2020 and 2024. This reliance on the public sector mirrors climate finance broader trends: according to the Climate Policy Initiative (2025), public actors contributed to 90% of global adaptation flows in 2023.

Adaptation is not only underfunded in the GSS bond market, but it is also heavily dependent on public financing, as private investors tend to favour mitigation projects with clearer revenue streams and more measurable returns.

Water infrastructure stands at the centre of this adaptation imperative. In the Netherlands, NWB Bank has issued more than EUR 10 billion in Water Bonds to finance flood protection, dike reinforcement, pumping stations, and wastewater treatment projects. These initiatives are strengthening the country’s resilience to sea-level rise and extreme rainfall, with a national target of full flood-defence compliance by 2050.

These risks highlight the potential damage of inaction. The need for climate adaptation has never been more urgent. However, while adaptation is emerging as a focus of climate policy, the financing for such initiatives remains well below expectations. The United Nations Environment Programme (UNEP) estimates that adaptation costs will reach hundreds of billions of dollars annually by 2030, particularly in emerging economies.

However, current public and private investment in adaptation remains insufficient. This financing gap limits how much governments can do to prepare for climate impacts, leaving populations exposed to escalating risks. Closing this gap requires innovative financial mechanisms that channel investment toward resilient solutions.

In Indonesia, sovereign Green Bonds have mobilised USD 12.5 billion to fund flood control systems, irrigation networks, and water storage facilities. These projects not only safeguard communities from climate-related hazards but also protect agricultural productivity and food security across one of the world’s most climate-exposed regions.

Such initiatives demonstrate that adaptation finance can be integrated effectively within existing Green Bond frameworks. Transparent use of proceeds, measurable outcomes, and public co-financing have made these instruments attractive to long-term investors seeking stability and impact.

The regulatory foundations are also in place. The EU Taxonomy formally recognises climate adaptation as an environmental objective, while the EU Green Bond Standard (EuGBS) provides a framework for issuers to report and verify adaptation-related activities. However, implementation remains slow, and private capital continues to lag behind public funding.

To close this gap, financial innovation will be essential. Blended finance structures, guarantees, and first-loss tranches can reduce perceived risk and crowd in private investment. At the same time, better reporting on metrics such as area of land protected, number of beneficiaries, and estimated reduction in damages will improve comparability and investor confidence.

For investors, water and resilient infrastructure represent more than an environmental priority. They are long-duration, income-generating assets that contribute directly to financial stability and risk management.

Supporting adaptation is no longer just about protecting the planet; it is about protecting portfolios and ensuring economic resilience in a warming world.

Cemento, acciaio e alluminio: ecco perché il CBAM pesa più per l’Italia

Il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) rappresenta un passo significativo nell’evoluzione della politica industriale europea degli ultimi anni. Dal 2026 l’Unione Europea applicherà un prezzo del carbonio alle importazioni di settori ad alta intensità emissiva – ferro, acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, idrogeno ed elettricità – con un obiettivo chiaro: evitare che la decarbonizzazione europea finisca per spingere la produzione verso Paesi con standard ambientali più deboli e, allo stesso tempo, difendere la competitività dell’industria europea.

Il meccanismo nasce da tre esigenze complementari: contrastare il carbon leakage, cioè la delocalizzazione della produzione in Paesi con standard ambientali più deboli,  proteggere le imprese che già sostengono i costi del sistema europeo di scambio delle emissioni (EU ETS) e spingere i partner commerciali globali a ridurre l’intensità emissiva rendendo la decarbonizzazione un fattore competitivo anche nei mercati globali.

L’impatto sull’Italia: dove siamo più vulnerabili

Secondo un recente working paper del FMI, l’impatto complessivo del CBAM sugli scambi europei è relativamente limitato (circa 0,10% del valore totale delle importazioni). Tuttavia, l’effetto varia in modo significativo da settore a settore e tra i diversi Stati membri.

Per l’Italia, i settori più esposti sono tre: cemento, ferro e acciaio, alluminio.

  • Cemento. È il comparto più vulnerabile: l’Italia registra un impatto potenziale del 10,8%, nettamente superiore alla media UE (~7–8%) e ben sopra Francia e Germania. Il motivo è duplice: forte dipendenza da fornitori extra-UE dei Balcani e della Turchia, e un elevato fabbisogno di materiali da costruzione.
  • Ferro e acciaio. Anche qui l’Italia mostra una sensibilità superiore alla media europea (3% Italia, contro 1% di Francia e Germania) a causa dell’importazione di semilavorati siderurgici da Turchia, Ucraina e Serbia, con un’offerta intra-UE spesso insufficiente o non competitiva.
  • Alluminio. L’impatto (1,9%) è solo leggermente superiore alla media UE (circa 1,3%), ed è determinato dal peso del settore nelle filiere automotive, packaging ed edilizia, e dalla dipendenza da Paesi con mix energetici più carbon-intensive.

Molto più contenuta, invece, l’esposizione a elettricità e fertilizzanti, dove l’Italia risulta allineata alla media europea.

Perché l’Italia è più esposta rispetto alla media UE?

Non è una questione di inefficienza, ma della composizione delle catene di fornitura e dei volumi di materiali energivori utilizzati dal sistema produttivo.

L’Italia, infatti, importa grandi volumi di cemento, acciaio e alluminio da Paesi extra-UE ad alta intensità emissiva, è tra i maggiori utilizzatori europei di questi materiali nelle proprie filiere (edilizia, meccanica, automotive) e dispone di un numero più limitato di alternative intra-UE competitive per prezzo e caratteristiche tecniche.

Dal rischio all’opportunità: la possibile leva competitive

Il CBAM viene spesso letto come un costo aggiuntivo per l’industria italiana. È vero solo in parte. Per molte imprese potrebbe trasformarsi in un vantaggio competitivo. L’aumento del prezzo relativo dei competitor extra-UE più inquinanti riduce il dumping ambientale e valorizza le aziende europee, spesso già più efficienti sotto il profilo energetico e con tecnologie più pulite.

Settori in cui l’Italia eccelle, come la siderurgia elettrica o il riciclo dell’alluminio, potrebbero beneficiare di un mercato più equo e premiante per chi investe nella decarbonizzazione.

Nel medio periodo, il CBAM potrebbe inoltre stimolare il reshoring di produzioni chiave e ridurre la dipendenza da fornitori con standard emissivi molto inferiori a quelli europei.

1. Protezione dalla concorrenza ad alta intensità emissiva

Il CBAM riduce la competitività dei produttori extra-UE che non pagano un prezzo del carbonio, utilizzano tecnologie altamente emissive o operano con energia fossile.

Le imprese italiane, spesso più efficienti e con processi relativamente più puliti, ne risultano avvantaggiate.

2. Fine del “dumping ambientale”

I produttori esteri che offrivano prezzi inferiori grazie a standard ambientali più permissivi perdono questo vantaggio competitivo.

3. Incentivo alla decarbonizzazione delle imprese italiane

Il CBAM premia le imprese che già investono in tecnologie low-carbon, ad esempio siderurgia elettrica (EAF), dove l’Italia è leader europeo, alluminio riciclato, molto meno emissivo dell’alluminio primario e materiali da costruzione a basse emissioni.

4. Rafforzamento della filiera industriale europea

Nel medio periodo il CBAM può favorire il reshoring di produzioni industriali,ridurre la dipendenza da fornitori extra-UE con mix energetici più sporchi, e stimolare investimenti e innovazione green all’interno dell’UE.

Si tratta di un potenziale vantaggio competitivo sistemico per l’industria europea.

Conclusione

Il confronto sul CBAM tende a concentrarsi sugli impatti immediati come i costi, la burocrazia, e la complessità tecnica, ma la posta in gioco è più ampia. Il CBAM non è soltanto uno strumento di politica climatica: è una misura industriale, geopolitica e commerciale, destinata a ridisegnare le catene del valore europee.

Per un Paese manifatturiero come l’Italia, la sfida non è evitare il CBAM, ma sfruttarlo: investire nella modernizzazione delle filiere, integrare tecnologie low-carbon e prepararsi a una competizione internazionale in cui il prezzo del carbonio diventerà un fattore strutturale.

La transizione non riguarderà solo le emissioni, ma la posizione dell’Europa, e dell’Italia, nelle industrie strategiche del futuro.

Main Source: The EU’s CBAM / IMF Working Paper No. 2025/125

Mitigation isn’t enough: The case for adaptation finance

Global bond markets have a tendency to view climate finance through the lens of decarbonisation. Renewable energy, electric transport, and green buildings dominate Green Bond issuance, offering measurable CO₂ savings and straightforward impact narratives. Yet as the planet warms and physical risks escalate, an equally, if not more urgent agenda is emerging: financing adaptation.

More than 1.8 billion people today live in high flood-risk areas. Climate-related disasters caused USD 550 billion in damages in 2024 alone. The World Health Organization estimates droughts are expanding across multiple continents, eroding agricultural productivity and threatening energy security.

The economic implications are not insignificant. The UN Environment Programme (UNEP) projects that developing countries will need USD 387 billion annually for adaptation by 2030, yet only USD 28 billion of international public finance flowed in 2022. This leaves an annual financing gap of nearly USD 360 billion. For investors, these numbers translate into material portfolio exposure. Flooding, drought, and heat stress can impair asset values, disrupt supply chains, and reduce sovereign credit quality. Inaction, the UNEP report notes, already costs more than financing the solutions.

What is apparent from our latest quarterly GSS Bond report, When Mitigation Falls Short: The Growing Need for Adaptation Finance, is that global capital flows remain heavily skewed toward mitigation. Adaptation, here, refers to assets that build resilience against floods, droughts, heat, and sea-level rises. Between 2018 and 2025, just 1.8% of Green, Social and Sustainability (GSS) Bond proceeds have been channelled towards adaptation projects.

Public institutions do nearly all the heavy lifting: 96% of adaptation-related issuance over the past five years has come from governments, development banks, or supranational entities. Private capital has yet to play a meaningful role.

Even where issuers include adaptation in their frameworks, follow-through is tenuous. We found that only 30% of bonds referencing adaptation in their pre-issuance documents ultimately allocate some capital to such projects. To put this into context, GSS Bond issuance totalled around USD 140 billion in Q3 2025, down slightly year-on-year. Yet most of that money is still going to mitigation: with adaptation receiving roughly 1 percent. Why the disparity? Adaptation projects are often local, smaller in scale, and slower to deliver measurable returns. They protect against losses rather than generate new cash flows, which makes them less intuitive for investors accustomed to energy-transition metrics. Quantifying their impact, for instance avoided flood damage or reduced water scarcity, remains difficult, as it is their linkage to financial returns.

For capital markets, adaptation finance is also risk management. Investors exposed to sovereigns, utilities or corporates vulnerable to physical climate impacts face growing tail risk. Rating agencies are increasingly factoring resilience into credit assessments, meaning adaptation spending today could avert downgrades tomorrow.

Adaptation investments, such as flood defences, water infrastructure, and resilient agriculture, can often offer stable, long-duration returns. They are natural assets for fixed-income investors seeking predictable cash flows, especially when supported by public co-financing or frameworks like the EU Green Bond Standard (EuGBS) and EU Taxonomy, which formally recognise adaptation as an eligible Environmental Objective.

There are some good examples of adaptation finance at work. Whilst not EuGBS, the Netherlands’ NWB Bank has issued EUR 10 billion in “Water Bonds” to finance flood protection and wastewater projects. Indonesia’s sovereign Green Bonds fund irrigation systems and coastal defences to safeguard agriculture and fisheries. Both cases show how adaptation can be structured within existing green-bond architectures, offering transparent use of proceeds and measurable outcomes.

Scaling adaptation finance will require a mix of public incentives, blended-finance mechanisms, and better data. Guarantees or first-loss tranches could attract private investors wary of local project risk. Standardised reporting and metrics would improve comparability and credibility. Metrics such as area of land protected, number of beneficiaries, or estimated damage reduction.

Regulatory frameworks also matter. The EU Taxonomy’s adaptation criteria, published in 2021, provide a foundation for classifying eligible activities, but implementation remains slow. Broader adoption of the EuGBS could accelerate transparency and investor confidence.

For asset managers, the opportunity lies in integrating physical-risk analytics into portfolio construction. Funds that tilt toward resilient infrastructure, water systems, or climate-proof agriculture can not only deliver impact but potentially outperform as physical risks materialise.

The choice facing investors should focus not on whether to finance adaptation, but how soon they do so. Resilience-building initiatives are not just investments in climate security, but investments in economic stability.

Adaptation finance is the next frontier of sustainable investment and a test of whether finance can evolve as fast as the climate is changing.

SFDR Review Proposal: Step in the right direction but questions remain

The European Commission’s SFDR Review Proposal marks a decisive pivot in the EU’s sustainable finance architecture. Yet for all its ambition, it is a reform that moves forward and backwards at the same time, simplifying what had become unwieldy, while re-opening perennial debates the market had hoped were settled.

1. Removing entity-level PAI disclosures: A step backwards?

The decision to eliminate entity-level PAI reporting may be efficient, but efficiency alone is not progress. For many Asset Managers and Wealth Managers, the PAI process, though far from perfect. had triggered internal improvements in data collection and impact assessment. Eliminating the requirement may interrupt this development at a moment when more consistency, rather than less, would be valuable.

Of course, nobody disputes that the process was cumbersome. Data inconsistencies across providers meant the final outputs were frequently useful only for internal assessment, not for the broader market. But that internal usefulness mattered.

2. Three-tier Product categorisation: Alignment with reality

Replacing Articles 8 and 9 with three product categories—Sustainable, Transition, and ESG Basics—corrects a long-standing mismatch between regulatory intention and market behaviour. Articles 8 and 9 were never meant to become de facto labels, yet the industry adopted them as such.

This clearer categorisation brings welcome structure, but it also demands far more. Wealth Managers, in particular, will need to deepen product due diligence to ensure alignment with the new thresholds and to guard against greenwashing. The categories allow ample flexibility in approach, so a fund’s strategy, methodology, and asset manager profile will matter more than ever.

For us, this holistic assessment has always been our core methodology, not just analysing holdings, but scrutinising strategy and manager behaviour. Our existing framework already includes a dedicated section evaluating ESMA naming alignment, and this work is now directly in step with what the market will increasingly require.

The interaction between the new SFDR product categories and ESMA’s existing naming guidelines will require careful consideration. Under the current ESMA rules, funds using “ESG” terminology must apply Paris Aligned Benchmark-level exclusions, while the ESG Basics category under the proposed SFDR framework would apply less stringent Climate Transition Benchmark-type exclusions. The two approaches are not fully aligned, and further regulatory clarification will be essential to ensure consistency across the framework and avoid operational uncertainty.

3. Removing “Sustainable Investment” definition: Necessary, yet not transformative

Removing the former definition of “Sustainable Investment” addresses the inconsistencies generated by its broad interpretation. However, embedding sustainability directly within product-category criteria may not fully resolve this issue. Without detailed thresholds and sector-level guidance, different market actors may still arrive at diverging interpretations of what constitutes a “sustainable” product.

Consistency, comparability, and clarity will depend entirely on the new product templates and disclosure rules.

4. Simplified product-level disclosure: Relief for some, headache for others?

With the removal of mandatory Sustainable Investment and Taxonomy disclosures—and with PAI metrics becoming less central—the foundations of the current suitability framework will need to be reconsidered. This transition is manageable but will require distributors to re-design questionnaires, product mapping methodologies, and internal processes once the new templates are finalised. Clarity from regulators will be particularly important to ensure a smooth and consistent implementation across the market.

As with the other reforms, the ultimate effects depend on the details of the forthcoming templates. But it is already clear that distributors will face significant operational and conceptual adjustments.

A Reform That Leaves Important Questions Open

The SFDR Review Proposal is a clear attempt to bring coherence to a system that had become unwieldy and, in parts, ambiguous. In many respects, it succeeds. Yet it also deconstruct mechanisms that, despite their flaws, were beginning to drive real progress.

As the market waits for final templates and implementation guidance, one thing is emerging: this reform could reshape not just disclosures, but the entire ecosystem of sustainable fund classification, selection, and distribution.

And whether the reform ultimately brings greater clarity will depend on the forthcoming technical standards and templates, which will determine how consistently the new framework is applied across the market.

La rivoluzione dell’IA nella finanza sostenibile

In un contesto in cui le istituzioni finanziarie, così come i fornitori di rating ESG e di sostenibilità, si trovano a far fronte a crescenti pressioni regolamentari e all’esigenza di gestire grandi quantità di dati, l’intelligenza artificiale emerge come un potente facilitatore ma anche come un potenziale rischio.

Dall’aumento dell’efficienza nei processi di rendicontazione alla nascita di nuovi dilemmi etici e di governance, l’IA sta ridefinendo il modo in cui l’ESG e la sostenibilità vengono implementati, monitorati e regolati.

Per investitori sostenibili e società di investimento, l’IA dovrà rappresentare un’area di reale interesse e studio nei prossimi anni.

L’efficienza dell’AI nella rendicontazione ESG e il costo ambientale

L’IA sta diventando uno strumento chiave per aiutare gli operatori finanziari a gestire la crescente complessità della rendicontazione ESG e di sostenibilità. Con normative come la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) dell’Unione Europea, che dal 2026 si applicherà a quasi 50.000 imprese, le aziende dovranno raccogliere, validare e rendicontare dati molto più granulari—spesso provenienti da migliaia di fornitori.

Gli strumenti basati su IA possono automatizzare gran parte di questo lavoro, rendendo la compliance più rapida ed economicamente efficiente.

L’IA sta già migliorando la raccolta dei dati ESG e di sostenibilità, permettendo di operare su scala senza sacrificare la qualità. L’automazione consente l’estrazione, la classificazione e la validazione delle informazioni in maniera tempestiva, su asset class e geografie diverse, aiutando i clienti a rimanere allineati a un perimetro normativo in continua espansione.

Tuttavia, questi benefici hanno un costo ambientale. L’addestramento dei modelli di IA e il funzionamento dei data centre richiedono grandi quantità di energia e acqua, il che contribuisce alla crescita delle emissioni e mette sotto pressione le risorse naturali.

I regolatori stanno prestando sempre più attenzione a questo aspetto. La Commissione Europea, ad esempio, sta valutando requisiti specifici affinché le aziende rendicontino l’impronta ambientale del proprio utilizzo dell’IA.

Allineare l’IA all’etica e all’impatto

L’IA apre nuove possibilità per gli investimenti etici e a impatto. Algoritmi avanzati possono monitorare continuamente i portafogli per verificarne l’allineamento alle preferenze ESG, reagire a nuove controversie e adeguare dinamicamente le esposizioni—portando maggiore personalizzazione e reattività alle strategie di investimento sostenibile.

Ma l’IA introduce anche rischi etici. In assenza di una governance adeguata, i modelli possono consolidare bias sistemici, perpetuare esclusioni o generare risultati opachi che minano la fiducia.

L’Artificial Intelligence Act dell’UE, adottato nel 2024, giudica molte applicazioni finanziarie dell’IA—come il credit scoring o la costruzione automatizzata di portafogli—come “ad alto rischio”, imponendo severi requisiti di trasparenza, governance dei dati e supervisione umana.

Parallelamente, la Financial Conduct Authority (FCA) del Regno Unito ha identificato il bias algoritmico come una minaccia diretta alla tutela dei consumatori e all’integrità dei mercati.

Costruire fiducia nella finanza guidata dall’IA

La governance è il cuore dell’approccio europeo alla regolamentazione dell’IA. L’AI Act impone che gli strumenti finanziari basati su IA rispettino standard rigorosi in materia di qualità dei dati, trasparenza e gestione del rischio. Questo riguarda anche gli strumenti focalizzati sull’ESG—come piattaforme di rating e analisi basate su IA—che dovranno documentare chiaramente le modalità in cui l’IA viene applicata, verificata e supervisionata.

Inoltre, dal 2026 i fornitori di rating ESG e di sostenibilità nell’UE saranno soggetti al Regolamento sulla Trasparenza e l’Integrità delle Attività di Rating ESG (UE 2024/3005) che introduce obblighi di disclosure sui metodi basati su IA, sulla tracciabilità delle fonti dati e sulla mitigazione dei conflitti di interesse—rafforzando ulteriormente il legame tra integrità tecnologica e credibilità della sostenibilità.

Il Regno Unito è allineato su questi principi. La FCA richiede ora che i consigli di amministrazione abbiano responsabilità diretta per i sistemi di IA, con una chiara comprensione degli output e dei rischi dei modelli. Le società non in grado di spiegare o monitorare il funzionamento dei propri strumenti basati su IA rischiano di non essere conformi alle aspettative regolamentari e di incorrere in sanzioni.

Una doppia trasformazione

L’intersezione tra IA e ESG sta guidando una doppia trasformazione: da un lato, ampliando le possibilità della finanza sostenibile; dall’altro, imponendo maggiore attenzione nell’uso della tecnologia. Per le istituzioni finanziarie il messaggio è chiaro: la governance dell’ESG e quella dell’IA non possono più essere considerate separatamente.

Per avere successo, le imprese devono integrare l’IA nei framework di sostenibilità—non solo per migliorare la rendicontazione e i risultati degli investimenti ESG e di sostenibilità, ma anche per garantire che i mezzi utilizzati siano tanto responsabili quanto i fini perseguiti.omento in cui la finanza internazionale inizia davvero a rispondere alla sfida dell’attuazione.

SFDR, la svolta della Commissione Europea e cosa significa davvero per il mercato

La Commissione Europea ha pubblicato pochi giorni fa la proposta di revisione della Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), con l’obiettivo dichiarato di semplificare il quadro normativo, aumentare la comparabilità delle informazioni e introdurre un nuovo sistema di classificazione dei prodotti finanziari. Una riforma che segna una svolta significativa rispetto agli Articoli 8 e 9, che il mercato aveva ampiamente utilizzato come etichette di sostenibilità, pur essendo stati concepiti dal Regolatore come schemi di disclosure.

La revisione introduce tre categorie in cui al momento permangono ampi margini di flessibilità – Sustainable, Transition ed ESG Basics – e rimuove vari obblighi percepiti come onerosi, tra cui la rendicontazione dei Principal Adverse Impacts (PAI) a livello di entità.

Addio ai PAI obbligatori: semplificazione o passo indietro?

Il reporting PAI ha rappresentato un primo passo verso il monitoraggio sistematico degli impatti negativi degli investimenti. Pur con limiti metodologici e dati spesso imperfetti, ha forzato gli operatori a costruire processi interni più strutturati. La sua abolizione rappresenta quindi un arretramento in termini di trasparenza e accountability, anche se è innegabile che il processo fosse gravoso e scarsamente fruibile per gli stakeholder esterni.

Un potenziale conflitto normativo

Le tre nuove categorie segnano un cambio di paradigma e risultano più aderenti a come gli investitori selezionano effettivamente i fondi.
Appare aprirsi un disallineamento comparando le nuove classificazioni con le linee guida ESMA sui nomi dei fondi: la categoria ESG Basics di SFDR richiede esclusioni allineate ai Climate Transition Benchmarks (CTB), meno stringenti dei Paris-Aligned Benchmarks (PAB) richiesti oggi da ESMA per i fondi che usano il termine “ESG”. Il risultato è un potenziale conflitto normativo.
A nostro avviso, dovrebbe prevalere l’impostazione SFDR, più coerente con la logica del nuovo sistema e più facilmente applicabile.

Cos’è un “investimento sostenibile”?

La proposta elimina la definizione di “investimento sostenibile”, che negli anni ha generato divergenze interpretative tra gli asset manager. Tuttavia, il Regolatore definisce la categoria Sustainable come in: “Prodotti che contribuiscono a obiettivi di sostenibilità ambientale o sociale investendo in società o progetti che già rispettano standard di sostenibilità elevati”. Solo con la pubblicazione dei nuovi template di prodotto sarà possibile valutare il reale livello di rigore. La complessità di definire cosa sia sostenibile a livello di strategia di fondo non scomparirà ed è improbabile che la revisione elimini del tutto le ambiguità.

MiFID: un sistema da ricostruire

La Commissione propone una drastica semplificazione delle disclosure di prodotto, limitandole a dati disponibili, comparabili e veramente significativi.
Da un lato questo ridurrà gli oneri per gli operatori, dall’altro sembra indirizzare il mercato verso un’intera riscrittura dell’impianto MiFID sulle preferenze di sostenibilità.

I tre pilastri attuali (quota di investimenti sostenibili, percentuale di allineamento alla Tassonomia, considerazione dei PAI) diventano potenzialmente obsoleti se le rispettive disclosure non sono più obbligatorie o mancano definizioni puntuali. Distribuire prodotti in linea con le preferenze dei clienti richiederà la costruzione di un nuovo questionario MiFID e andranno sviluppati nuovi sistemi di mappatura dei prodotti.

Cosa cambia per le gestioni patrimoniali e l’utilizzo dei dati

Il servizio di gestione patrimoniale non rientrerà nell’ambito delle nuove categorie di prodotto introdotte da SFDR 2 e, di conseguenza, non potrà essere classificato come Articolo 7, 8 o 9. La normativa riserva infatti tali categorie esclusivamente agli strumenti finanziari caratterizzati da una strategia formalizzata e destinati alla distribuzione.

Parallelamente, SFDR 2 introdurrà requisiti più stringenti in materia di utilizzo dei dati. Con l’obiettivo di migliorare la trasparenza sulla provenienza dei dati, rafforzare la qualità delle informazioni utilizzate e ridurre il rischio di fare affidamento su dataset non verificati o non adeguatamente controllati, la normativa imporrà la formalizzazione e documentazione degli accordi sull’impiego di informazioni provenienti da fornitori esterni, con l’unica eccezione dei dati open-source. Questa evoluzione normativa è inoltre coerente con il quadro regolamentare che sarà attivo dal prossimo anno per i provider di rating ESG.

Che cosa significa tutto questo per il mercato?

La revisione potrebbe ridurre parte della complessità introdotta negli ultimi anni, ma rischia anche di creare un periodo di forte incertezza operativa. In particolare:

  • le linee guida ESMA e la nuova SFDR potrebbero risultare incoerenti;
  • i PAI più soggettivi portano a una minore confrontabilità tra i fondi;
  • MiFID II dovrà essere potenzialmente ripensata;
  • la definizione di categoria di prodotto “Sostenibile” rischia di restare aperta a interpretazioni diverse come in precedenza.

In questo quadro di cambiamento, la capacità di valutare non solo i portafogli ma anche la coerenza delle strategie e dei processi di gestione diventa essenziale per comprendere come i prodotti si posizionano rispetto alle nuove categorie e per riconoscere eventuali criticità, inclusi i rischi di greenwashing.

La necessità di verifiche più puntuali sulle metodologie adottate dai gestori e sull’allineamento alle norme esistenti è destinata a crescere man mano che il mercato si adatterà al nuovo impianto regolamentare.

Perché il fondo ha cambiato nome? Che fine ha fatto l’ESG?

Nei mesi successivi alla pubblicazione delle Linee Guida dell’ESMA sui nomi dei fondi, l’industria europea dell’asset management ha avviato una vera e propria ondata di rebranding. I dati parlano chiaro: dei 5.354 fondi classificati come Articolo 8 e 9 nel database di MainStreet Partners, 1.639 rientrano nel campo di applicazione delle linee guida, di cui 541 Articolo 9 e 1.098 Articolo 8.
La stragrande maggioranza di questi è soggetta alle esclusioni previste dai Paris-Aligned Benchmark (PAB), che riguardano rispettivamente 487 e 970 fondi. Tuttavia, il vero impatto non risiede tanto nelle esclusioni, quanto nei nomi.

La grande rimozione
In totale, 700 fondi hanno modificato il proprio nome dall’annuncio delle linee guida, e il 90% di questi è rappresentato da fondi Articolo 8. L’asimmetria è evidente e suggerisce che, mentre i fondi Articolo 9 erano in larga misura già allineati, gli Articolo 8,  più esposti al rischio di “greenwashing”,  sono stati costretti ad adeguarsi a requisiti più severi. In tutto, 21 fondi Articolo 9 e 405 fondi Articolo 8 hanno rimosso almeno un termine legato alla sostenibilità dal proprio nome, mentre rispettivamente 48 e 226 lo hanno aggiunto.
In breve, questo rafforza quanto già osservato: la rimozione di termini è molto più diffusa tra i fondi Articolo 8 e avviene con una frequenza doppia rispetto alle aggiunte, mentre i fondi Articolo 9 mostrano un andamento opposto, essendo già conformi.
Il termine più rimosso? “ESG”, eliminato da 291 fondi, seguito da “Sustainable”, cancellato da 161 fondi.
Tra le poche aggiunte figurano parole come “ESG”, “Screened” e “Transition”, ma con frequenze molto inferiori, segno di una ricalibrazione strategica e regolamentare più che di un abbandono.

Perché sta accadendo
Questo cambiamento è la risposta diretta al tentativo dell’ESMA di limitare l’uso improprio del linguaggio legato alla sostenibilità. Le linee guida stabiliscono che qualsiasi fondo che utilizzi termini come “ESG”, “Sustainable”, “Impact” o “Transition” debba destinare almeno l’80% degli investimenti alla promozione di caratteristiche ambientali o sociali e, se dichiara di essere “sostenibile”, investire in misura significativa in questo tipo di investimenti. Inoltre, tali fondi devono rispettare le severe esclusioni previste dai benchmark PAB o CTB, che vietano l’esposizione a tabacco, combustibili fossili, carbone e aziende che violano i principi ONU o OCSE.
In pratica, questo significa che molti fondi, soprattutto tra gli Articolo 8 con screening ESG parziali, non avrebbero più i requisiti per mantenere tali nomi senza una costosa ristrutturazione del portafoglio. Il risultato? Molti gestori hanno preferito la soluzione più semplice: rimuovere il termine.

Uno shock regolamentare
Ciò che stiamo osservando è una sorta di “pulizia semantica” del panorama dei fondi europei.
Se da un lato l’obiettivo dell’ESMA è rafforzare la protezione degli investitori e la coerenza del mercato, dall’altro l’effetto collaterale è un apparente arretramento del branding legato alla sostenibilità.
Nel breve periodo, questo potrebbe paradossalmente far apparire il mercato meno sostenibile, con centinaia di fondi che perdono la dicitura ESG pur mantenendo lo stesso approccio d’investimento.
Tuttavia, ciò non significa un passo indietro nella finanza responsabile, ma piuttosto la fine di un’era di marketing e l’inizio di una fase guidata dalla conformità, in cui le parole devono riflettere la sostanza.

Oltre il nome: la nuova strategia
Gli asset manager stanno ora ridefinendo il proprio posizionamento: alcuni si stanno orientando verso strategie “Transition”, che restano compatibili con le esclusioni CTB ma offrono maggiore flessibilità; altri puntano su metriche proprietarie e framework di allineamento agli SDG, meno dipendenti dalle definizioni ESMA. Infine, i più grandi, soprattutto con fondi Articolo 9, rafforzano la trasparenza dei dati e i report di allineamento alla Tassonomia UE.

Questo cambiamento riflette un più ampio processo di consolidamento normativo in Europa: la proposta della Platform on Sustainable Finance di introdurre una classificazione in tre categorie (Sustainable, Transition, ESG Collection) tenderà a standardizzare ulteriormente la classificazione dei fondi.

Morte (e rinascita) dell’ESG
L’ESMA non sta “uccidendo” l’ESG, lo sta facendo maturare. La rinuncia ai termini “ESG” e “Sustainable” nei nomi dei fondi non rappresenta un arretramento, ma un passo verso una maggiore credibilità.
La sfida ora è garantire che gli investitori comprendano che dietro meno parole “green” può celarsi un’integrazione della sostenibilità più solida. Quello che emerge è un settore in transizione: dal dichiarare l’ESG al dimostrarlo.

E se le parole stanno scomparendo, forse è perché la vera sostenibilità non ha più bisogno di gridarlo.

Per gli investitori, l’allineamento climatico è oggi un dovere fiduciario

Ci è stato spesso chiesto, in questi giorni, se la Conferenza delle Parti (COP) è ancora uno strumento utile, se ha ancora valore.

La nostra posizione è chiara: nonostante limiti evidenti, le COP restano uno strumento indispensabile. E il motivo è strutturale. Mettere d’accordo 198 Paesi con priorità, livelli di sviluppo e responsabilità storiche profondamente diversi significa, per definizione, avanzare a piccoli passi. Ma nessun altro foro multilaterale permette a governi, imprese e società civile di confrontarsi, definire regole comuni e coordinare la transizione climatica a livello globale.

La prova è nei numeri: rispetto al 2015, le proiezioni sulle temperature globali si sono abbassate, segno che l’architettura multilaterale ha esercitato un’influenza concreta sull’azione climatica, pur rivelandosi ancora insufficiente a colmare il divario che separa il mondo dagli obiettivi concordati.

Dalle promesse all’attuazione

COP30 aveva anticipato un cambio di fase: meno enfasi su nuovi impegni e maggiore concentrazione sull’attuazione, attraverso strumenti regolatori più mirati, investimenti dedicati e mobilitazione del caoitale. La conferenza assumeva inoltre una forte valenza simbolica, celebrando il decennale dell’Accordo di Parigi e riportando il negoziato in Brasile, luogo d’origine dell’UNFCCC nel 1992. L’ambientazione amazzonica orientava naturalmente il dibattito verso natura, foreste, biodiversità e bioeconomia.

Gli esiti finali hanno confermato tale impostazione, con un’attenzione marcata agli strumenti operativi e finanziari: l’impegno a triplicare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2035 (Global Mutirão), il rafforzamento dei meccanismi di sostegno ai Paesi vulnerabili e l’avvio della Baku–Belém Climate Finance Roadmap. Rimangono tuttavia assenti, nel testo negoziato, riferimenti vincolanti al phase-out dei combustibili fossili

Con la presentazione dei nuovi NDC, Belém era attesa come verifica della distanza tra impegni e risultati concreti. Il bilancio è misto: avanzamenti tangibili su adattamento e natura; progressi più circoscritti su finanza e mitigazione, ancora lontani dal riorientare la traiettoria globale verso gli 1,5°C.

Quali sono state le priorità dei partecipanti

COP30 è stata costruita attorno a un’idea centrale: l’implementazione. Una dinamica articolata su tre livelli complementari:

  • Livello nazionale – Aggiornamento degli NDC e rafforzamento della coerenza tra obiettivi climatici, politiche industriali e strumenti fiscali e regolatori, con crescente attenzione alla credibilità dei meccanismi di attuazione.
  • Livello subnazionale – Valorizzazione del ruolo di città e regioni come attori chiave nell’esecuzione delle misure di attuazione, in particolare su edilizia, raffrescamento, trasporti, housing e resilienza locale. Tuttavia, il testo finale non ha attribuito a questo livello un ruolo operativo così incisivo quanto inizialmente prospettato.
  • Finanza –  Avvio della costruzione di una roadmap credibile tra Baku e Belém sulla finanza climatica, volta a chiarire la ripartizione tra capitale pubblico, privato e concessional.

Sul piano politico, le attese convergevano su una dichiarazione di alto profilo sulla transizione, sostenuta anche dai Paesi BRICS. La dichiarazione è stata effettivamente adottata, ma con un linguaggio più cauto del previsto e privo di elementi vincolanti.

I temi centrali della trentesima edizione

I. Adattamento, resilienza e natura

Il tema dominante. Il divario tra bisogni e finanziamenti cresce, mentre gli impatti fisici si intensificano. Il Global Mutirão ha formalizzato l’obiettivo di triplicare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2035, pur senza definire una ripartizione chiara degli impegni tra contributori. Contestualmente, è stata lanciata la NAP Implementation Alliance, con l’obiettivo di accelerare l’attuazione dei Piani Nazionali di Adattamento.

Il contesto amazzonico ha riportato al centro la natura come elemento strutturale della stabilità climatica e come asset economico essenziale. Le iniziative discusse includono nuovi meccanismi di protezione forestale, programmi di ripristino dei terreni e modelli integrati che coniugano agricoltura, protezione sociale e resilienza rurale.

II. Sicurezza idrica e resilienza sistemica

L’acqua è emersa come tema trasversale della COP, non solo come priorità di adattamento ma anche come rischio sistemico per economie e catene di fornitura. Il negoziato ha posto l’accento su infrastrutture idriche resilienti, governance dei bacini e integrazione del rischio idrico nelle valutazioni finanziarie. A ciò si è aggiunta la Blue NDC Challenge, con il relativo Blue Package di 27 azioni dedicato a ecosistemi marini e comunità costiere, mirato a mobilitare 170 miliardi USD entro il 2030. L’adattamento oceanico è stato riconosciuto come leva per sicurezza alimentare, biodiversità e riduzione delle emissioni, con potenziali contributi fino al 35% entro il 2050.

III.  Industria, energia e digitalizzazione

Industria, energia e digitalizzazione risultano sempre più intrecciate nella traiettoria della transizione delineata a Belém. La digitalizzazione è stata presentata come abilitatore chiave per adattamento, early warning e modellizzazione climatica, mentre cresce la preoccupazione per l’impronta emissiva del settore ICT e per il volume crescente di e-waste. In parallelo, la modernizzazione delle infrastrutture energetiche è emersa come priorità strutturale: le utilities hanno annunciato circa 150 miliardi USD l’anno destinati a reti e sistemi di storage, verso una pipeline da 1 trilione USD entro il 2030, sostenuta dal lancio del Global Grids and Storage Coordination Council e dei Climate Finance Principles for Grids. Sul fronte industriale, la Belém Declaration ha consolidato l’agenda della green industrialisation, mentre il Belem4X pledge sui combustibili sostenibili — ora sottoscritto da 23 Paesi — mira a quadruplicarne l’uso nei settori hard-to-abate entro il 2035.

Cosa significa per gli investitori

A valle degli avanzamenti emersi e delle aree in cui il negoziato ha proceduto con minore decisione, gli esiti di COP30 hanno delineato implicazioni concrete per il quadro regolatorio, le strategie di portafoglio e i processi di gestione del rischio.

I. Implementazione dal basso

Gli impegni assunti a livello nazionale si stanno traducendo in un ampliamento della regolazione locale: aggiornamento dei codici edilizi, nuovi criteri di procurement, standard per raffrescamento e resilienza termica, requisiti sui materiali, oltre a norme rafforzate per la gestione idrica e dei rifiuti. Tali interventi influenzeranno in maniera diretta la configurazione delle future pipeline progettuali e l’allocazione del capitale nei settori più esposti alla transizione.

II. Nuove opportunità (e nuovi rischi)

Opportunità:

  • infrastrutture urbane resilienti (edifici, housing, trasporti, raffrescamento),
  • soluzioni digitali e AI per adattamento e risk analytics,
  • tecnologie idriche e sanitarie resilienti,
  • agritech e soluzioni per la resilienza dei piccoli produttori,
  • sistemi circular waste e riduzione del metano,
  • grid, storage ed espansione delle reti elettriche.

Rischi:

  • pressioni regolatorie crescenti sugli asset digitali ad alta intensità energetica,
  • aspettative più stringenti su cooling, metano e rifiuti,
  • crescente scrutinio sul  consumo idrico, uso del suolo e catene di fornitura sensibili,

III. Una nuova narrativa fiduciaria

Nel corso della COP si è intensificato il dialogo tra policymaker, asset owner e corporate leader, anche grazie alla piattaforma di confronto dell’Asset Owner Summit, convergendo su tre assi principali:

  • una mappatura condivisa delle soluzioni di transizione, comprendenti mitigazione, adattamento e natura,
  • l’individuazione di geografie prioritarie, con particolare attenzione ai mercati emergenti,
  • una definizione congiunta e aggiornata del dovere fiduciario in un contesto caratterizzato da rischi climatici crescenti.

Nel corso della COP, si e’ inoltre intensificato il dialogo tra asset owner e corporate leader grazie alla piattofrma di dialogo High-level dell’Asset Owner Summit, convergendo su tre direttrici principali:

  • una mappatura condivisa delle soluzioni di transizione, comprendenti mitigazione, adattamento e natura;
  • l’individuazione di geografie prioritarie, con particolare attenzione ai mercati emergenti;
  • una definizione aggiornata del dovere fiduciario in un contesto caratterizzato da rischi climatici crescenti.

Il documento finale presentato ai Ministri delle Finanze ha evidenziato la necessità di rafforzare gli strumenti a supporto della finanza di transizione, pur senza introdurre elementi prescrittivi.
L’esito complessivo ha confermato che la credibilità dei percorsi di transizione tende a configurarsi come componente strutturale e non più accessoria della responsabilità fiduciaria.

Conclusione

COP30 non avrebbe potuto, da sola, risolvere le tensioni politiche globali né colmare il divario verso gli 1,5°C. Ha tuttavia auspicabilmente posto le basi per una nuova fase della governance climatica, in cui l’attenzione si sposta dalla dichiarazione all’attuazione: meno narrativa, più implementazione; meno promessa, più delivery.

Per gli investitori, il messaggio è duplice:

  • il rischio climatico sta rapidamente diventando rischio finanziario;
  • le opportunità di investimento in infrastrutture, adattamento e soluzioni digitali stanno accelerando.

Belém potrebbe così configurarsi non soltanto come una conferenza di transizione, ma come il momento in cui la finanza internazionale ha iniziato a misurarsi in modo più concreto e sistematico con la sfida dell’attuazione.