Water and Infrastructure, Strategic Assets for Climate Resilience

From prolonged droughts to devastating floods, water has become the defining frontier of climate risk. Over the past decade, extreme weather has disrupted economies worldwide, damaging infrastructure, eroding ecosystems, and exposing the limits of global preparedness.

The scale of the challenge is already immense. Water-related disasters, including floods, caused more than 8,500 deaths, displaced over 40 million people, and resulted in approximately USD 550 billion in economic losses in 2024. These figures highlight how water-related risks are not only humanitarian crises but also systemic financial shocks that affect national budgets, supply chains, and asset valuations.

Despite the scale of these impacts, capital flows remain overwhelmingly tilted toward mitigation rather than adaptation.

In fact, in our latest GSS Bonds Market Trends Report, just 1.8% of global Green, Social, and Sustainability (GSS) Bond proceeds since 2018 have been allocated to adaptation projects. Yet, as the data show, the cost of inaction already exceeds the cost of financing the solutions.

Over the past years, climate adaptation financing from Green Bonds has been clearly driven by public entities, which accounted for more than 96% of issuance between 2020 and 2024. This reliance on the public sector mirrors climate finance broader trends: according to the Climate Policy Initiative (2025), public actors contributed to 90% of global adaptation flows in 2023.

Adaptation is not only underfunded in the GSS bond market, but it is also heavily dependent on public financing, as private investors tend to favour mitigation projects with clearer revenue streams and more measurable returns.

Water infrastructure stands at the centre of this adaptation imperative. In the Netherlands, NWB Bank has issued more than EUR 10 billion in Water Bonds to finance flood protection, dike reinforcement, pumping stations, and wastewater treatment projects. These initiatives are strengthening the country’s resilience to sea-level rise and extreme rainfall, with a national target of full flood-defence compliance by 2050.

These risks highlight the potential damage of inaction. The need for climate adaptation has never been more urgent. However, while adaptation is emerging as a focus of climate policy, the financing for such initiatives remains well below expectations. The United Nations Environment Programme (UNEP) estimates that adaptation costs will reach hundreds of billions of dollars annually by 2030, particularly in emerging economies.

However, current public and private investment in adaptation remains insufficient. This financing gap limits how much governments can do to prepare for climate impacts, leaving populations exposed to escalating risks. Closing this gap requires innovative financial mechanisms that channel investment toward resilient solutions.

In Indonesia, sovereign Green Bonds have mobilised USD 12.5 billion to fund flood control systems, irrigation networks, and water storage facilities. These projects not only safeguard communities from climate-related hazards but also protect agricultural productivity and food security across one of the world’s most climate-exposed regions.

Such initiatives demonstrate that adaptation finance can be integrated effectively within existing Green Bond frameworks. Transparent use of proceeds, measurable outcomes, and public co-financing have made these instruments attractive to long-term investors seeking stability and impact.

The regulatory foundations are also in place. The EU Taxonomy formally recognises climate adaptation as an environmental objective, while the EU Green Bond Standard (EuGBS) provides a framework for issuers to report and verify adaptation-related activities. However, implementation remains slow, and private capital continues to lag behind public funding.

To close this gap, financial innovation will be essential. Blended finance structures, guarantees, and first-loss tranches can reduce perceived risk and crowd in private investment. At the same time, better reporting on metrics such as area of land protected, number of beneficiaries, and estimated reduction in damages will improve comparability and investor confidence.

For investors, water and resilient infrastructure represent more than an environmental priority. They are long-duration, income-generating assets that contribute directly to financial stability and risk management.

Supporting adaptation is no longer just about protecting the planet; it is about protecting portfolios and ensuring economic resilience in a warming world.

Cemento, acciaio e alluminio: ecco perché il CBAM pesa più per l’Italia

Il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) rappresenta un passo significativo nell’evoluzione della politica industriale europea degli ultimi anni. Dal 2026 l’Unione Europea applicherà un prezzo del carbonio alle importazioni di settori ad alta intensità emissiva – ferro, acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, idrogeno ed elettricità – con un obiettivo chiaro: evitare che la decarbonizzazione europea finisca per spingere la produzione verso Paesi con standard ambientali più deboli e, allo stesso tempo, difendere la competitività dell’industria europea.

Il meccanismo nasce da tre esigenze complementari: contrastare il carbon leakage, cioè la delocalizzazione della produzione in Paesi con standard ambientali più deboli,  proteggere le imprese che già sostengono i costi del sistema europeo di scambio delle emissioni (EU ETS) e spingere i partner commerciali globali a ridurre l’intensità emissiva rendendo la decarbonizzazione un fattore competitivo anche nei mercati globali.

L’impatto sull’Italia: dove siamo più vulnerabili

Secondo un recente working paper del FMI, l’impatto complessivo del CBAM sugli scambi europei è relativamente limitato (circa 0,10% del valore totale delle importazioni). Tuttavia, l’effetto varia in modo significativo da settore a settore e tra i diversi Stati membri.

Per l’Italia, i settori più esposti sono tre: cemento, ferro e acciaio, alluminio.

  • Cemento. È il comparto più vulnerabile: l’Italia registra un impatto potenziale del 10,8%, nettamente superiore alla media UE (~7–8%) e ben sopra Francia e Germania. Il motivo è duplice: forte dipendenza da fornitori extra-UE dei Balcani e della Turchia, e un elevato fabbisogno di materiali da costruzione.
  • Ferro e acciaio. Anche qui l’Italia mostra una sensibilità superiore alla media europea (3% Italia, contro 1% di Francia e Germania) a causa dell’importazione di semilavorati siderurgici da Turchia, Ucraina e Serbia, con un’offerta intra-UE spesso insufficiente o non competitiva.
  • Alluminio. L’impatto (1,9%) è solo leggermente superiore alla media UE (circa 1,3%), ed è determinato dal peso del settore nelle filiere automotive, packaging ed edilizia, e dalla dipendenza da Paesi con mix energetici più carbon-intensive.

Molto più contenuta, invece, l’esposizione a elettricità e fertilizzanti, dove l’Italia risulta allineata alla media europea.

Perché l’Italia è più esposta rispetto alla media UE?

Non è una questione di inefficienza, ma della composizione delle catene di fornitura e dei volumi di materiali energivori utilizzati dal sistema produttivo.

L’Italia, infatti, importa grandi volumi di cemento, acciaio e alluminio da Paesi extra-UE ad alta intensità emissiva, è tra i maggiori utilizzatori europei di questi materiali nelle proprie filiere (edilizia, meccanica, automotive) e dispone di un numero più limitato di alternative intra-UE competitive per prezzo e caratteristiche tecniche.

Dal rischio all’opportunità: la possibile leva competitive

Il CBAM viene spesso letto come un costo aggiuntivo per l’industria italiana. È vero solo in parte. Per molte imprese potrebbe trasformarsi in un vantaggio competitivo. L’aumento del prezzo relativo dei competitor extra-UE più inquinanti riduce il dumping ambientale e valorizza le aziende europee, spesso già più efficienti sotto il profilo energetico e con tecnologie più pulite.

Settori in cui l’Italia eccelle, come la siderurgia elettrica o il riciclo dell’alluminio, potrebbero beneficiare di un mercato più equo e premiante per chi investe nella decarbonizzazione.

Nel medio periodo, il CBAM potrebbe inoltre stimolare il reshoring di produzioni chiave e ridurre la dipendenza da fornitori con standard emissivi molto inferiori a quelli europei.

1. Protezione dalla concorrenza ad alta intensità emissiva

Il CBAM riduce la competitività dei produttori extra-UE che non pagano un prezzo del carbonio, utilizzano tecnologie altamente emissive o operano con energia fossile.

Le imprese italiane, spesso più efficienti e con processi relativamente più puliti, ne risultano avvantaggiate.

2. Fine del “dumping ambientale”

I produttori esteri che offrivano prezzi inferiori grazie a standard ambientali più permissivi perdono questo vantaggio competitivo.

3. Incentivo alla decarbonizzazione delle imprese italiane

Il CBAM premia le imprese che già investono in tecnologie low-carbon, ad esempio siderurgia elettrica (EAF), dove l’Italia è leader europeo, alluminio riciclato, molto meno emissivo dell’alluminio primario e materiali da costruzione a basse emissioni.

4. Rafforzamento della filiera industriale europea

Nel medio periodo il CBAM può favorire il reshoring di produzioni industriali,ridurre la dipendenza da fornitori extra-UE con mix energetici più sporchi, e stimolare investimenti e innovazione green all’interno dell’UE.

Si tratta di un potenziale vantaggio competitivo sistemico per l’industria europea.

Conclusione

Il confronto sul CBAM tende a concentrarsi sugli impatti immediati come i costi, la burocrazia, e la complessità tecnica, ma la posta in gioco è più ampia. Il CBAM non è soltanto uno strumento di politica climatica: è una misura industriale, geopolitica e commerciale, destinata a ridisegnare le catene del valore europee.

Per un Paese manifatturiero come l’Italia, la sfida non è evitare il CBAM, ma sfruttarlo: investire nella modernizzazione delle filiere, integrare tecnologie low-carbon e prepararsi a una competizione internazionale in cui il prezzo del carbonio diventerà un fattore strutturale.

La transizione non riguarderà solo le emissioni, ma la posizione dell’Europa, e dell’Italia, nelle industrie strategiche del futuro.

Main Source: The EU’s CBAM / IMF Working Paper No. 2025/125